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lunedì 3 gennaio 2022

Scrap Wood Art - Ritratto #1

Era da un po' di tempo che cercavo qualche semplice progetto per utilizzare tutti i ritagli di legno che inesorabilmente si accumulano nel laboratorio, in alternativa all'impiego come combustibile per le grigliate o per il camino. Curiosando in internet sono incappato nelle installazioni di Strook, un artista belga che utilizza appunto legno destinato al macero per realizzare delle opere molto interessanti. Allora ho pensato di copiarne spudoratamente una ed il risultato è questo Ritratto #1. E' realizzato interamente con sfridi di pallet tenuti assieme con colla e graffette ed è alto circa 45cm, una scala molto ridotta rispetto all'originale, in quanto nella realtà l'artista lavora con tavolati molto estesi come vecchie porte, ante di armadi, steccati, ecc. ottenendo opere con un'altezza di qualche metro che generalmente vengono collocate sulle facciate di qualche edificio.





giovedì 16 giugno 2011

Mario Rossetti

Guardando le opere di Mario Rossetti si rimane subito attratti dal consistente e robusto cromatismo delle immagini che fluttuano libere all'interno del quadro. Questa spiccata percezione visiva presente nei suoi dipinti è provocata da una forte matericità, la quale deriva dalla modalità di stesura del colore, soffiato attraverso piccole cannucce su stoffa di tela o raso. Tale prassi esecutiva, che, con contraddistinta originalità, si potrebbe definire ”soffismo”, sembra apparentemente affidata ad un banale pressapochismo ma in realtà dà origine ad una organica, giustapposta ed armonica visione d'insieme. Oltre a ciò, la reazione che nasce tra pigmento e supporto corruga quest'ultimo aumentandone la vibrazione luminosa, tanto da indurre lo spettatore quasi a toccare con le dita l'opera. Talvolta la matericità si arricchisce grazie all'accumulo sul supporto di elementi donati dalla natura (come i pezzi di legni portati a riva dal mare) od oggetti dismessi, come perle e vetri, i quali conferiscono all'immagine un forte senso di tridimensionalità funzionale al tema ricercato dall'autore. Oltre alla dimensione tecnica di questo suo “soffismo”, volto a coinvolgere la dimensione sensoriale, l'artista, attraverso il suo lavoro, manifesta anche le proprie istanze intellettuali e morali. Infatti si intravede un'analogia emotiva tra il senso di infinitezza e di libertà presente all'interno del quadro ed l'immenso amore per il mare simboleggiato dall'identificazione che egli ha con il gabbiano: tale animale per antonomasia rappresenta la libertà che rifugge ogni costrizione e cattività allo stesso modo in cui l'artista si sente libero. Ma non solo, attraverso la rappresentazione dei vari soggetti, Rossetti vuole sensibilizzare l'uomo moderno sulla sua condizione esistenziale e contingente, concentrandosi su temi specifici, quali per esempio l'ecologia: essa è da intendersi come una dimensione teorica in cui l'essere umano può ritrovarsi, riavvicinandosi alla natura e fuggendo dal materialismo e dall'insensibilità contemporanei. Per attuare questo proposito, l'artista persegue due modalità: la prima, ideale, si incentra sulla raffigurazione di colorati animali immersi in monocromatici sfondi, i quali sono da intendersi come metafore dei vizi e delle virtù umane; la seconda, esecutiva, che con un neologismo potremmo definire “recuperismo”, si sostanzia tramite la vera e propria fabbricazione delle sue opere grazie all'uso di materiali riciclati, a partire dalla costruzione del telaio per disporre la tela, per giungere alla stesura di un colore proveniente da scarti. Fantasia, spiritualità, ecletticità ed espressività, fuse a tratti di realismo ed astrattismo, creano un amalgama dal quale Rossetti trae un messaggio di dialogo con l'umanità contemporanea, sottolineandone, talvolta in modo ironico e metaforico, i malesseri, ma offrendo al contempo ad essa momenti di riflessione tesi ad una positiva via d'uscita.

Siro Perin

giovedì 17 febbraio 2011

Ben Ormenese

Sebbene sia un artista schivo e riservato, lontano dai frastuoni, talvolta sclerotizzati, della cultura contemporanea, Ben Ormenese nel corso della sua lunga carriera ha sempre lavorato incessantemente, dedicando tutta la sua vita all'arte. Uomo raffinato e colto, ha prodotto sculture,  pitture e “pitto-sculture” per mezzo delle quali, grazie alla sua duttilità, alla sua capacità tecnica e all'utilizzo delle più disparate tipologie di colori e materiali (legno, cartone, lamelle, perspex e altro) ha sondato e percorso le tematiche dell'arte che più lo hanno coinvolto. Spiccano, tra le altre, il dinamismo, il luminismo, gli effetti della luce da e verso l'opera, il cromatismo dei pigmenti, le relazioni tra seconda e terza dimensione, il rapporto pieno vuoto, il plasticismo.Ricercatore fantasioso, arguto, complesso ed instancabile, sempre proteso all'oltre, Ormenese nel corso della sua attività intellettuale ha sempre mantenuto ferme alcune modalità, provenienti sia dalle sue innate capacità sia dal suo pregresso biografico, le quali lo hanno sempre contraddistinto: prima di tutto la progettualità, intesa come studio sulle possibilità di attuazione e di esecuzione; la versatilità, necessaria per le compenetrazioni tra tecniche e materiali; l'armonia, intesa come accordo di ritmo delle tensioni generate dai colori, dalle linee, dalle forme e dai materiali che compongono i vari elementi della creazione; il rimando ad una geometricità architettonica percepita come metodo sistematico per la costruzione formale e strutturale dell'opera; l'estremo equilibrio, interpretato come assetto organico di un organismo unico, derivante dalla compensazione delle singole peculiarità interne; i dialoghi artificiosamente naturali che l'opera  costruisce all'interno di se stessa e con lo spazio che la circonda. L'opera d'arte dunque in Ormense non è un luogo dove si sostanzia un soggetto, ma è il soggetto vero e proprio, nel quale i rapporti tra spazio, luce, forma e struttura sono da un lato pretesto per l'analisi, dall'altro, mezzi necessari alla costruzione del costrutto stesso. Tali modalità operative danno luogo a veri e propri cicli di esperimenti nei quali Ormernse indaga un determinato tema in modo analitico sino a che quest'ultimo non lo soddisfa, come testimoniano le serie di “Fluttuazioni” e “Teatrini”. Proprio uno di questi percorsi tematici è il fulcro sul quale verte la presente mostra a Marcon, in contemporanea con l'esposizione antologica presso i Musei Civici di Santa Caterina a Treviso, dal 13 novembre 2010. Le opere esposte, sempre intrise di euritmie bilanciate e proporzionate, se interpretate in metafora, si trasformano in una narrazione ad intreccio dalla quale emerge non una sola storia ma un insieme di vicende soggettive ed oggettive che coesistono nei medesimi spazi e tempi. Tale coralità, espandendosi dal racconto perché privo di un inizio e di una fine, permette all'osservatore una lettura capace di gradare dall'insieme al particolare e viceversa, e perciò di divenire padrone del proprio percorso visivo ed interpretativo. Per dar vita alle sue originali creazioni, Ormenese affianca a questa particolare tipologia narrativa l'utilizzo di un eclettico strumento di scrittura: il bisturi. Quest'ultimo, nella mano del maestro, muovendosi con perizia chirurgica, incide, riga e strappa il supporto nero, facendo emergere materiale sottostante di diversa pigmentazione. Questa “calligrafia” talvolta dai tratti calcografici e talora scultorei, rende possibile la creazione di forme e di figure composte da un colore solido teso ad esaltare il dato espressivo dello “scritto”e perciò renderlo ancora più coinvolgente agli occhi dell'osservatore. 

Siro Perin

lunedì 14 giugno 2010

Nuova arte per nuove identità

Nella sociologia, nelle scienze etnoantropologiche e sociali, il concetto di identità assume una duplice modalità: da un lato, esso contempla il modo con cui l’individuo considera e costruisce se stesso come membro di un determinato gruppo sociale (es. Nazione, etnia, genere, ecc…), dall’altro, si concretizza nel modo in cui questi gruppi consentono al singolo individuo di collocarsi e di relazionarsi con essi. E’ chiaro perciò che per la formazione di ogni identità non si può prescindere dal confronto con due componenti fondamentali: l’identificazione tra il soggetto e le figure con le quali esso condivide alcuni caratteri che producono senso di appartenenza; l’individuazione, cioè l’emersione di caratteristiche in questo soggetto che lo differiscono sia dagli elementi del gruppo a cui appartiene sia dagli elementi degli altri gruppi. Su tale dicotomia si innesta anche il concetto di identità multipla, ovvero la posizione autodeterminata o meno che questo soggetto assume all’interno della rete di relazioni e percezioni presenti nel gruppo sociale. Ma nell’epoca della post-modernità, come già affermava Z. Bauman, questa identità personale sta lentamente perdendo alcuni punti di riferimento, quali la cultura, la religione e l’etnia che sono essenziali per i rapporti tra l’Io del soggetto e il gruppo con il quale esso si relaziona, dando così vita ad uno stato fluido e mutevole dell’identità. Oltre a queste situazioni presenti nella società contemporanea, gli studiosi E. Reid, A. Bruckman e S. Turkle affermano poi che l’avvento dell’informazione in rete potrebbe far perdere al soggetto la propria corporeità e concretezza, dandogli la possibilità di sperimentare liberamente e senza freni con la propria identità che diverrebbe oltre che fluida anche multipla ed alternativa acquisendo di conseguenza la possibilità di servirsi di risorse simboliche, se non false, per interagire con gli altri. Il quadro che si delinea sembra perciò mostrarci un periodo storico nel quale il soggetto si caratterizza per la sua non-identità personale, teso però al raggiungimento di una compiutezza personale, che molto probabilmente mai raggiungerà, e fortemente caratterizzato dal variare del ruolo e della posizione che esso intende assumere all’interno del contesto della rete di relazioni. Va altresì aggiunto che tale nuova posizione assunta dal soggetto modifica il concetto di identità anche sul piano filosofico: esso non è più entità definibile e perciò riconoscibile in quanto detentore di qualità che concretamente lo distinguono dagli altri enti ed in grado di costruire relazioni stabili e durature con questi. Sulla scia di queste evoluzioni che coinvolgono l’uomo odierno, è chiaro che anche l’idea di Arte, in quanto suo specchio, ha subito in tutte le sue manifestazioni dei mutamenti spesso negativi. Infatti l’Arte oggi sembra abbia perso quel ruolo positivo di atto creativo dell’essere umano basato su un processo intellettuale, gestuale e tecnico, acquisito sia teoricamente sia attraverso l’esperienza, capace di essere testimonianza sensibile dell’uomo d’ogni tempo, tanto da apparire fossilizzata nel sicuro passato o nel muto realismo o nell’estetismo ridondante o nel banale eclettismo o nella mistificatoria propaganda o nell’occasionale gestualità o, in fine, nel solo investimento economico. La possibilità che l’Arte possa riassumere quel ruolo, che Le è proprio, di forza chiarificatrice dell’identità dell’uomo contemporaneo, non si realizza con il rifugiarsi nel laconico lamento estemporaneo declamato della propria torre eburnea, ma con l’agire artistico stesso. Quest’ultimo deve riacquistare quegli aspetti che gli erano, e sono, sostanziali: la genuina volontà di raggiungere in modo conscio ed autonomo degli scopi e la necessità che tali obiettivi si rivestano di valori sensibili. Solo così si può ottenere una dimensione dell’Arte pregna sul piano culturale, utile, dal forte valore educativo ed analitico e in grado di narrare e descrivere il tempo nel quale essa vive ed opera e perciò in grado, anche servendosi dei mezzi contemporanei, di testimoniare il mondo d’oggi e di ridare chiarezza consapevole al concetto di identità. Solo conoscendo in modo cosciente e chiaro, ed essendo sicuri di se stessi e dei molteplici stati che possiamo assumere, si può costruire una propria identità atta all’interazione con gli altri enti e perciò capace di dare vita a nuove relazioni stabili in grado di soddisfare sia il proprio senso di appartenenza sia la voglia di condivisione. Le operatività e gli ideali che l’Arte ha a disposizione per far sì che questo avvenga, partono da due cardini: una progettazione sapiente e consapevole ed un nuovo concetto degli elementi base che la compongono. Per progettualità si intende il dar vita ad un costrutto artistico complesso seguendo un programma ben definito, libero, anche nelle azioni più estreme, dal pressappochismo e dall’occasionalità, guidato nell’esecuzione tecnica e nella scelta dei materiali, monitorabile nelle fasi di costruzione e riconducibile ad un atto creativo mai banale, ma necessario e soprattutto sensibile. Invece per elementi base si intendono una elucubrata applicabilità a partire dalle “cose” semplici che strutturano l’opera, quali la forma e la materia che, come affermato nel “sinolo” aristotelico, danno vita all’ente e dal quale deriva l’essenza. Per realizzare tutto ciò, serve una diversa, e forse nuova, figura d’artista: egli deve, come prima istanza, ritornare ad essere intellettuale e non più paradigma di una società muta e deve riuscire, come secondo passo, a captare, attraverso il suo sentire interiore e le più svariare modalità e i molteplici risultati, a creare nuove idee, immagini e forme che siano di contributo alla riqualificazione dei perduti valori che compongono l’identità dell’uomo contemporaneo, per fare in modo che quest’ultimo grazie all’arte possieda una guida per fare ordine all’interno del suo vivere.
Siro Perin

domenica 9 maggio 2010

Luigi Voltolina

“Figura, contaminazione ed innovazione”. Queste sono le parole con cui il Maestro Luigi Voltolina definisce la sua concezione artistica, sviluppata lungo tutta la sua intensa e coinvolgente attività, la quale è stata anche costellata da positivi riscontri internazionali. Siano lavori di pittura, scultura o grafica, tutti evidenziano questo trinomio, che, a buon diritto, si può definire aulico. La figura umana, da sempre al centro dell’accademismo, si smaterializza, perde la propria consistenza classica e la propria gravità naturale per trasformarsi in forma essenziale: essa pertanto è espressa da irrequieti graffiti in movimento. Questi segni assurgono a simboli del mondo moderno fatto di caotica frenesia, velocità ed accelerazioni continue, dove l’uomo ci appare come un essenziale incrocio di linee percorso e mosso da una vibrante scarica elettrica. Il pigmento intenso ed accattivante, dai toni accesi e carichi, estremizza questa nuove forme e talvolta travalica il cromatismo, apparendoci come colpi di luce bianca e monocroma. Ad un primo colpo d’occhio, sembra di vedere fusi insieme elementi futuristici ed espressionistici; in realtà l’artista va oltre: egli coglie le istanze culturali a 360 gradi fondendole con il proprio io, in modo da creare una pittura aperta a molteplici influenze e contaminata da altre manifestazioni artistiche del genere umano (come ad esempio la musica); la tela dunque diventa un ricettacolo di sperimentalismi, idee e influssi culturali di vario genere. Nasce così un’opera lontana dall’ingessato classicismo e dalle tendenze artistiche eclettiche del momento, così da risultare rigenerata, capace di cogliere l’attimo della nostra attualità, e proiettata con slancio vitale anche verso il futuro, in modo tale che l’uomo moderno ci si possa identificare e riconoscere. Nella scultura tale euresi e tali percorsi acquistano una tridimensionalità plastica che catapulta nella dinamicità contemporanea l’essere umano, accompagnandolo con elementi propri di questa modernità: ecco apparire figure antropomorfe che camminano velocemente con la loro valigetta ventiquattrore, come fossero veri uomini d’affari visti camminare per le strade di una movimentata New York. Concludendo, Voltolina usa la sua arte per captare gli impulsi del tempo e dello spazio che lo circondano,in modo da tradurli in una testimonianza storica del mondo odierno, ma riuscendo anche a far intravedere le direttrici principali dell’arte che verrà.
Siro Perin

domenica 18 aprile 2010

Choi Yoon-Sook

Osservando le opere scultoree di Choi Yoon-Sook si intuisce subito come il soggetto principale della sua ricerca artistica sia l’essere umano. I suoi lavori rappresentano esseri umani ideali, capaci, in primo luogo, di esprimere intrinsecamente emozioni e sensazioni e di muoversi in modi articolati e, in secondo luogo, di comunicare e coinvolgere gli altri uomini che con esse si relazionano. Queste due peculiarità, nel contesto stesso di ogni opera, danno vita ad un dialogo attraverso il quale la scultura assume una duplice valenza: da un lato essa favorisce un particolare coinvolgimento interiore nel fruitore tramite una simbiosi intellettuale ed emotiva con il significato che essa incarna, dall’altro, si arricchisce, come si evince in determinate opere, di funzionalità pratica e fruibile in grado di soddisfare le necessità fisiche dell’uomo quali il gioco o il riposo. L’artista, per dar vita a questa relazione antropocentrica, si avvale di forme esili, slanciate, nelle quali i tratti somatici cedono il passo ad una stilizzazione antropomorfica totalizzante e comprensibile da chiunque, impostando l’opera su grandezze monumentali destinate ad inserirsi in ambienti adatti all’aggregazione umana, come i luoghi aperti delle piazze, travalicando perciò lo spazio conviviale della casa. Oltre a queste caratteristiche derivanti dalla concezione filosofica dell’artista, Choi Yoon-Sook infonde nelle sue opere un’accattivante dimensione estetica che non solo è tesa ad esaltare maggiormente la visione e la comprensione del soggetto, ma anche, nel corso del tempo, si impone come un carattere identificativo del suo fare scultura. Tale estetica è il risultato della fusione, da parte dell’artista, della sua grande maestria tecnica ed esecutiva, di un’innata versatilità nell’uso degli attrezzi e di un’ampia conoscenza dei vari materiali, tanto che, a volte, quest’ultimi, grazie a colori e venature, addirittura si trasformano in suggeritori della forma da realizzare. Nascono così sculture impostate su forme lisce che dialogano con lo spazio che le circonda, strutturate sulle alternanze dei pieni e dei vuoti e percorse nelle membra da cavità che catalizzando e riflettendo la luce, anche se flebile, amplificano questa dimensione percettiva, come si vede in opere quali “Panchina” o “Scivolo”, oppure strutture apparentemente semplici ma in realtà articolate nell’esecuzione e nei rapporti statici, quali ad esempio “Ego”. Sembra che la compresenza dei vari tematismi, la versatilità tecnica, le policromie dei materiali evidenzi in Choi Yoon-Sook la necessità di infondere nelle sue sculture un’atmosfera ludica la quale possa far scaturire nell’osservatore un momento di serena e piacevole riflessione e di amicale interrelazione tra gli esseri umani.
Siro Perin

sabato 3 aprile 2010

Franco Costalonga

E’ del poeta il fin la meraviglia, parlo dell’eccellente e non del goffo, chi non sa far stupir, vada alla striglia.

Questo celebre verso di Giambattista Marino rende chiara l’idea di come il rimatore nel caso specifico, ma più in generale l’artista, sia quella persona che attraverso le sue doti naturali e i suoi virtuosismi è in grado di suscitare stupore e straniamento nel fruitore attraverso la creazione di qualcosa di inconsueto e che si distacca dai canoni predefiniti, dalla tradizione (talvolta stantia) e dalla provincialità (spesso inconcludente) per dar vita a qualcosa di nuovo e di universale. E’ proprio per questo dunque che l’artista, grazie all’utilizzo ed alla compenetrazione dei suoi mezzi di espressione (pittura, scultura, musica, architettura, ecc…), sente allo stesso tempo la necessità e il desiderio di creare un’opera viva, capace di meravigliare sempre e di stimolare sensi, mente ed emozioni grazie al fascino della sua eccezionalità, offrendo così all’uomo una sorta di viatico terapeutico, sociologico e culturale. Ma l’opera d’arte per creare evoluzione e cambiamento, deve contenere in se stessa la capacità di rompere con la staticità fisica e fisiologica contingente e allo stesso tempo fornire una via d’uscita verso il futuro. Essa ci riesce solo grazie a elementi ed a composizioni in grado di generare un senso di smarrimento e di confusione interiore, prima di tutto dal punti di vista visivo. L’osservatore di fronte all’opera d’arte deve perciò perdere ogni punto di riferimento intrinseco ad essa, essere pervaso quasi dalle vertigini e soffrire una crisi nella quale mette in discussione i capisaldi tangibili ed intellettivi relativi al proprio vissuto. Di conseguenza, spinto dalla necessità di trovare una visione univoca, un punto fermo, cioè una via d’uscita, egli maturerà una nuova concezione del qui e dell’adesso e compirà una evoluzione interiore. Quest’ultima è dunque provocata dallo spiazzamento derivante dalla confusione del caos, la quale diviene necessaria per l’originarsi del nuovo ordine del cosmos. Ma la catarsi scaturita da questo stordimento, così come l’evoluzione biologica e naturale è infinita, non è definitiva: le innumerevoli modalità di rapporto visivo la trasformano sia in precario stato, sia in interminabile concetto di visione-contemplazione. Questa rottura degli schemi consolidati per originarne infiniti altri, attraverso una mutazione continua e plurima della visione, si riscontra nei lavori di Franco Costalonga. L’artista, durante la sua lunga carriera, grazie al suo agire, al suo avvicinarsi all’Arte Programmata, detta anche cinetica, al suo relazionarsi con le più disparate personalità in ambito artistico e al suo spaziare in vari settori sensibili, quali il design e l’insegnamento, si è sempre mosso in tal senso. Egli mira ad una destabilizzazione intesa come via d’uscita dell’arte attraverso l’arte stessa, la quale origina un mondo simulato in cui ci si perde per ritrovarsi. A tal fine, sembra quasi un paradosso, Costalonga si avvale di alcune delle sequenzialità del metodo scientifico, della fisica, della tecnica e delle varie modalità dell’arte, come confermano alcuni suoi studi sull’ottica concernenti agli specchi sferici, il tutto racchiuso in una consistente dimensione progettuale nella quale nulla è casuale. Ed è proprio la progettualità, per l’artista, la chiave per infondere all’opera tali caratteristiche: Costalonga all’inizio catalizza l’idea con la grafica, studia attentamente le possibilità di attuazione sequenziale e di esecuzione del lavoro monitorando e talvolta scoprendo cose nuove, ricerca e adopera in modo opportuno le più disparate tecniche, tecnologie, materiali classici, come la tela, oppure contemporanei, come il plexiglas, assemblandoli fra loro, studia i colori, i loro riverberi, la gradualità, gli accostamenti e li inserisce in modo giustapposto. Tale modalità esecutiva, che gli è congeniale sia per la sua propensione personale sia per gli studi presso l’Istituto Statale d’Arte nel quale ha poi a lungo insegnato, è contemporaneamente stata perfezionata dagli studi sulla riflessione e sulla rifrazione, e dall’altra sul movimento elettrico/manuale e roto/oscillatorio, ed infine dalle analisi sulla geometria teorica/applicata e piana/tridimensionale. Da questi presupposti nascono lavori articolati, inusuali e caratterizzati da alcune peculiarità, quali la mancanza del classico piano d’appoggio, di inizio o fine, di orizzontalità o verticalità e l’assenza di un titolo soggettuale e definito. Le opere dunque diventano forme oggettuali che si possono raggruppare in base alle progettazioni, alle ricerche ed alle sperimentazioni (es. “Trasforme”, “Specchi Mobili”, “Destrutturazioni Modulari”, ecc…) compiute dall’artista in un determinato periodo di tempo. Esse sono perfettamente equilibrate e bilanciate sul piano formale sia nel loro insieme che nelle singole parti e, cosa fondamentale, impostate sul concetto di modulo. Quest’ultimo, ideato intenzionalmente, essendo inteso come archetipo, cioè modello assoluto, e allo stesso tempo come variabile costante che si ripete nel creare infinite composizioni, assume la facoltà di amplificare all’infinito il fascinoso smarrimento che il complesso del quadro, della scultura o di un’altra struttura suscita in chi guarda. Nei lavori di Costalonga emerge sempre questa costante dimensione di crisi del retroterra culturale ed interiore, dal quale ciascuno può trovare il proprio modo di uscire e compiere successivamente un atto di crescita. Per permettere tutto ciò è l’artista stesso il primo che si lascia trasportare da tale senso di meraviglia, tanto caro al Marino: attraverso una pianificazione ragionata, egli deve smarrirsi per poi ritrovarsi in nuovi orizzonti e poter così attirare e coinvolgere nello stesso percorso lo spettatore. Quest’ultimo, stabilisce dunque una sorta di dialogo nascosto con l’autore, da esso voluto e ricercato intenzionalmente. Tale relazione si sostanzia nella necessità inconscia dell’osservatore di riscontrare nell’opera una sorta di legame con la propria storia, ma non trovandolo a causa dell’impossibilità di avere una visione totalizzante e stabilizzante egli viene trascinato dentro il mondo dell’opera stessa, per dialogare con essa, viverne la crisi, l’instabilità visiva e mentale e, attraverso le infinite possibilità d’osservazione, uscirne rigenerato. Tutto questo è possibile grazie agli innumerevoli riflessi proiettati sui lavori dalla luce: essa varia a seconda dei molteplici movimenti, singoli o combinati, dell’opera o di alcune sue parti, dello spettatore e della fonte di luce stessa nonché della variazione di intensità. Nelle ultime creazioni la ricerca progettualizzata di Costalonga si incentra su un nuovo concetto di modulo che trova origine nella geometria euclidea. Si tratta di un solido a forma triangolare che ribaltandosi dà origine ad un secondo solido di tipo romboidale. Il nuovo elemento, accostandosi ad altre riproduzioni di se stesso, dà vita a solidi di forma esagonale, i quali, ripetendosi a loro volta, secondo precisi schemi prestabiliti, creano altrettante forme geometriche richiamanti triangoli o altre figure. Queste strutture, emergenti da un fondo nero neutro, sono colorate secondo elucubrazioni precise e mirate che, a seconda della variazione della luce, accentuano la mutevolezza di tali “aberrazioni” ottiche che, accattivando l’osservatore, danno nuovamente inizio a quel processo di crisi mentale di cui si è parlato in precedenza. In questo modo l’artista dimostra ancora una volta la profondità della sua ricerca nell’ambito dei concetti cinetici, e altresì in quello della geometria speculativa e nell’estetica del colore. Costalonga attraverso i suoi giochi mentali e razionali, le sue plurime ricerche in aspetti inusuali, la sua abilità nell’essere capace di rigenerarsi, ha contribuito a dar grande l’arte programmata, a mantenerla viva e a farla dialogare alla pari con altre brache internazionali dell’arte, spesse volte esageratamente sopravalutate.

Siro Perin

martedì 9 marzo 2010

Siro Perin - Opere

Riporto le foto di alcune opere del mio amico ed artista Siro Perin, realizzate in cedro del Libano e rifinite a gomma-lacca. Molte di queste sculture sono state esposte in luoghi prestigiosi come Montecitorio e le sale del Vaticano. Sono tutti pezzi unici scolpiti tra il 1995 e il 2005.

Unione, h 50

Cariatide, h 70

Monaco, h 70

Solitudine, h 40

Idolo africano ( omaggio), h 65

Prostrazione, h 75

Sola anima, h 70

Forma d'omo, h 85

L'uomo e il volo , h 70

Solitudine (legno cerato), h 40

Omaggio ad Alberto Viani, h 100

sabato 27 febbraio 2010

Paber

“Chi può esprimere con i propri colori lo sterminio dei Sioux…? Solo il Paber”. In queste poche ma significative parole è contenuta tutta la poetica pittorica dell’artista Paber. Egli usa il colore come una sorta di scrittura visiva per raccontarci una vicenda o un accadimento particolarmente significativo, concentrandosi su un soggetto da cui lui stesso o l’essere umano viene influenzato. Il colore quindi diventa un tramite emotivo, sensoriale, ma anche psichico: attraverso i suoi coaguli, gli addensamenti, le macchie sulla tela egli fa emergere la vita, la storia e l’intimo delle persone. Paber si muove dunque su due prospettive: quella storica e quella romantica. Secondo la prima, ben lontano dalla mera astrazione o dall’informalità istintiva, egli trasforma i suoi dipinti in documenti storici, quasi in vere e proprie tracce dell’Uomo; ciò si evince in opere come “Parlami d’amore Mariù” in cui gli accenni grafici del ritornello della celeberrima canzone non solo fanno ritornare alla mente la melodia, ma grazie all’esaltazione dell’armonica policromia aprono il campo all’emozionalità ed alla malinconia del tempo passato. Invece secondo la seconda prospettiva, Paber intende mettere in luce le emozioni che percorrono l’intimo dell’uomo: in “Nebbia sul fiume” il nostro occhio viene attratto dall’armonico variare dei grigi e dalla loro vibrante corposità, con la conseguenza che il nostro io capta al medesimo tempo sia l’impalpabilità fisica della nebbia sia la melanconica suggestione che essa emana.  In alcune opere recenti il pittore si accosta maggiormente alla rappresentazione del reale, cosa testimoniata dal fatto che l’espressività del suo colore si va a fondere con la linea, con il segno. Compare la raffigurazione di un luogo altamente simbolico per l’Uomo: la città. Essa viene rappresentata con una forte carica emotiva, è scenica, quasi graffiata, e sembra volerci raccontare l’ineluttabilità dell’uomo.
Siro Perin

domenica 3 gennaio 2010

Oddino Guarnieri: Tracce d'inizio

Oddino Guarnieri è certamente uno dei pittori più famosi e prolifici nel panorama italiano dell’ultimo cinquantennio. Egli ha interagito con innumerevoli personalità sia in ambito artistico sia nel campo della critica e le sue opere si trovano tra le maggiori collezioni pubbliche e private italiane ed estere. Ma per giungere ad essere l’artista che noi oggi stimiamo, anch’egli ha dovuto attraversare un periodo di intensa e affascinante gavetta. A conferma di quanto scritto, basta osservare i primordi della sua carriera, rappresentati da alcune tavole riemerse dopo sessanta anni, per vedere come, fin dalle prime pennellate, emergono chiaramente dei tratti distintivi che diventeranno le costanti del suo essere pittore. Dipinti su tavola tra il 1949 e il 1952, questi podromi sono opere nate da riflessioni e studi che il giovane Guarnieri ha compiuto dopo aver visto, in compagnia del maestro Ugo Boccato (pittore attivo durante il secondo dopoguerra), la grande mostra parigina dedicata a W. Kandinsky. Da essi si può notare come l’artista fin da allora sia immerso in sperimentalismi culturali e tecnici in cui si manifesta la sua forte gestualità costituita da una fusione di istinto e ragione, sospinta dal piacere della scoperta e dal desiderio di andare oltre il contingente. Il primo dipinto, risalente al 1949, rappresenta un ambiente domestico. In esso il realismo colloquiale e quotidiano, quasi compassato, degli arredi e del mobilio è già percorso da quell’ansia pittorica che esploderà nella maturità dell’artista: il colore, steso sia con campiture corpose e intense sia con strisce luminose, si trasforma da elemento visivo a mezzo di indagine psico-analitica interiore sul soggetto. Seguono poi altre quattro opere (rispettivamente del 1950, del 1951 e due del 1952) nelle quali Guarnieri, rapito dalla sua voracità culturale, sente la necessità di confrontarsi con gli esiti delle avanguardie quali l’astrattismo e il futurismo. Nascono perciò delle “prove di studio”, come le definisce egli stesso, con cui si concretizza l’evoluzione del concetto di colore, ora inteso non solo come indagine ma anche come veicolo di espressività ed emotività. Esso dunque assume una nuova specificità capace di narrare le storie, le passioni e le riflessioni dell’uomo contemporaneo traslando l’obbiettivo dal soggetto al concetto. Il pigmento, scorrendo e scattando sulla tela, nell’incresparsi, nel raggrumarsi e nello sfilacciarsi crea accostamenti cromatici, talvolta dallo spessore tridimensionale (come si vede in alcune gocce di materia presenti sul supporto), che danno vita a evoluzioni centriche, forme geometriche, quali triangoli e cerchi, capaci di generare movimento visivo e coinvolgimento. Seppur siano considerati dal pittore stesso degli studi, questi lavori sono, come si accennava poc’anzi, organizzati e calibrati secondo una logica creativa in cui anche l’atto pittorico risponde ad una analisi ricca di significati sensibili che esploderà in seguito.

Siro Perin

lunedì 28 dicembre 2009

Carlo Casagrande

Molto spesso mi è capitato di scorrere sotto gli occhi dei cataloghi d’arte, e talvolta ho notato come questi, per attirare lo sguardo del lettore, siano titolati con iperboli lessicali che poco o nulla hanno in comune con le opere rappresentate. Nel caso di Carlo Casagrande credo che il titolo “Appunti di viaggio” ben rappresenti la sua attività artistica a partire dalla copertina nella quale vediamo rappresentati due colorati sandali posti sopra uno zerbino pronti a partire. Questo rapporto tra titolo e opera manifesta metaforicamente l’intento di questo giovane artista che si propone di fare il punto sui suoi viaggi culturali, cercando di sottolineare quali siamo stati i progressi da lui fatti a partire dal primo giorno in cui si è messo a dipingere. Il catalogo propone l’evoluzione della sua pittura sia in senso visivo sia in senso sperimentale, indirizzandosi verso due direzioni: da una parte lo studio e l’evoluzione del colore inteso come manifestazione di emozionalità; dall’altra l’enunciazione della simbiosi tra uomo e natura. Osservando la prima raccolta di appunti, riservata al colore, notiamo come in alcuni paesaggi, il pigmento, steso con una pennellata forte, vigorosa e solare, si carichi e si infuochi, nei rossi e nei gialli, tanto da richiamare alla mente atmosfere toscane. Poi, questo stesso composto da grandi campiture quasi geometriche, si placa e si fa riflessivo, come si legge nel trittico “Perdono”. Nella seconda raccolta, si evince come nella sua pittura sia importante l’osmosi tra paesaggio e propria anima, tanto che dei semplici girasoli si trasformano in uomini: i grandi fiori che simboleggiano non solo la dimensione agreste, diventano teneri “Innamorati”, romanticamente adagiati su un delicato e notturno praticello, di fronte ad una gigantesca luna fa da testimone, con il suo amoroso giallo, al romantico incontro. Su questo taccuino non mancano poi interessanti note in cui l’artista si lascia trasportare in una dimensione di ricerca, dove il reale deborda tanto da sfociare nella stilizzazione interiore, da trasformare un albero in ammasso filamentoso che sembra personificare uno spaventato uomo che si interroga sulla natura e sul mondo. Chiude la raccolta una intensa e drammatica Crocifissione, simbolo del sacrificio supremo dell’uomo-Dio che si fa redentore di tutti i mali. E’ doveroso sottolineare, in conclusione, la personalità pittorica di Carlo Casagrande. Egli è artista sincero e in continua ricerca, libero dai facili egocentrismi che molto spesso sono comuni a molti diffusi nel mondo dell’arte.

Siro Perin

domenica 15 novembre 2009

Maurizio Perozzi

Pittore e scultore, Perozzi ha fatto dell’analisi della società contemporanea il cardine essenziale della sua filosofia artistica. L’arte diventa un tramite per l’esplicazione analitica, che talvolta sfocia nella denuncia, delle incongruenze morali tipiche della nostra contemporaneità. Ecco quindi che emergono tematiche quali il consumismo, l’inquinamento, la mancanza di valori, che trasformano le opere di Perozzi in testimonianze della realtà contemporanea, costringendo alla riflessione il pubblico che osserva ed allo stesso tempo allontanandosi dalla rappresentazione estetica fine a se stessa. Parlando delle sue sculture, vediamo come grandi colature a forma di blocchi, fatte di plastica ma simili al bronzo, manifestano il malessere della nostrà società la quale ha eletto a bene supremo proprio la plastica, senza tenere conto dei danni che ne conseguono al suo uso. Le sue plastiche sono perciò grovigli materici e reali che denunciano le schizofrenie dell’uomo di oggi. Nella pittura, l’artista esprime questi stessi concetti attraverso l’uso di altre tecniche e di altri materiali: la foglia d’oro, caratteri di scrittura, ritagli di giornale e concrezioni di oggetti; il sovrapporsi di tutte queste esecuzioni artistiche crea singolari pittosculture, che manifestano la sua accusa, e talvolta la sua rabbia, per le storture del mondo odierno che, inerme ed incosciente, sembra dirigersi verso l’autodistruzione. È già a partire dal titolo che lo spettatore viene guidato nella lettura delle opere di Perozzi, addentrandosi all’interno ed indagando il dipinto per trarre le debite considerazioni, come si evince in “Omaggio della Biennale” in cui emerge il tema del consumismo deviato.

Siro Perin

lunedì 19 ottobre 2009

David Marinotto

Con la mostra del maestro prof. David Marinotto si conclude la rassegna di esposizioni promossa dall’associazione I.R.I.S., dedicata alla scuola di scultura dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, con la quale abbiamo già avuto modo di ammirare le opere di maestri come A. Viani e G.F. Tramontin. E’ naturale perciò individuare nell’opera di Marinotto delle affinità culturali e ideali condivise con i maestri che lo hanno preceduto. Infatti si possono cogliere alcuni spunti comuni a questi tre maestri, come l’importanza del disegno, la conoscenza delle varie esecuzioni tecniche e dei materiali, lo studio della storia dell’arte, gli scambi culturali e l’analisi dei rapporti forma-luce-spazio. Queste analogie ci permettono, quasi per paradosso, di evidenziare da un lato le peculiarità artistiche di Marinotto che lo distinguono dai colleghi e dall’altro i suoi contributi personali a tale scuola di scultura. Utilizzando una sorta di elenco didascalico, cercheremo di sottolineare alcune sue caratteristiche sostanziali. La prima si riconosce dal modo in cui egli coglie l’ispirazione per la realizzazione del soggetto: questo per Marinotto deriva non dalla natura o dalla storia dell’arte, ma dalla sua immaginazione; tutto dunque nasce dalla fervida fantasia dello scultore, la quale si concretizza in una forma che ha lo scopo di generare un dialogo sensibile tra scultore, opera e fruitore. Quest’ultimo, libero da orpelli, ha perciò la possibilità di interpretare liberamente e personalmente i messaggi di tale relazione, come dimostra, in quasi tutte le opere, l’assenza del titolo. La seconda peculiarità si evidenzia nella modalità con cui viene instaurata questa interazione di idee: essa è la concretizzazione di emozioni serene e gioiose o di riflessioni intellettuali che si generano nella mente dello spettatore, veicolate dalle forme dell’opera nel momento in cui egli la sta osservando e contemplando. La terza vede l’estensione di tale influenza reciproca anche alle opere stesse. Marinotto dà vita ad una scultura nella quale anche la materia si relaziona con lo spazio che la circonda e la compenetra, tanto che è il vuoto stesso a divenire forma scultorea delimitata dal pieno. Si crea così un costrutto armonico, equilibrato e composto da due elementi, o per meglio dire, due entità, in colloquio perpetuo tra di loro, talvolta legati per mezzo di sfere d’oro che, oltre ad essere un tocco di luce, sembrano divenire metaforicamente il cuore del rapporto simbiotico. Il dialogo emotivo ed intellettuale che pervade intrinsecamente le statue e che esse riescono ad emanare a chi le osserva, è accentuato dagli effetti che la plastica assume. Essa sembra essere dolcemente modellata dalla luce, tanto da divenire vibrante, opalescente e mutevole allo stesso tempo, quasi che voglia prendere vita. Non vi sono contrappunti o rotture ma sinuosità e dolcezza, e se in alcuni casi sembra quasi di scorgere nelle forme create un sottile antropoformismo, esso è solo un capriccio della materia. Marinotto dunque ha saputo, proprio in nome di quella democraticità culturale tanto cara a Viani, non solo portare il proprio fondamentale contributo alla scuola di scultura nata nelle sedi dell’Accademia, ma anche farla vivere divulgandola al grande pubblico e traghettandola verso il futuro.

Siro Perin

giovedì 15 ottobre 2009

martedì 13 ottobre 2009

domenica 11 ottobre 2009