Gli economisti sono sotto attacco da più parti. La prestigiosa rivista Nature ha invocato la necessità di una “rivoluzione scientifica” in economia, riconducendo l’ incapacità degli economisti di “prevedere e evitare le crisi” al loro aver assunto il mercato ad idolo, ed accusandoli di fare propaganda piuttosto che scienza. Sono accuse pesanti, su cui essi devono dire qualcosa. Il Sole–24 Ore ha iniziato un dibattito con un editoriale “a discarico” di R. Perotti (23 novembre), proseguito poi con interventi molto critici sullo stato della professione – in particolare uno di Roberto Artoni del 26 novembre.
Che la crisi abbia suscitato questo confronto è senz’altro positivo. Mai come nell’ultimo decennio infatti gli economisti liberisti avevano monopolizzato l’informazione. Usando la vecchia tecnica dei frequenti complimenti e citazioni reciproche, sono riusciti a dare l’impressione anche a lettori avveduti che un pensiero unico accomunasse tutti gli “economisti seri”. Il punto importante non è tanto quello degli errori di previsione, ma le storie che questi “economisti seri” son venuti raccontandosi e raccontando ai malcapitati lettori, nei loro editoriali e nei loro libelli. Sostenevano che la liberalizzazione finanziaria avesse fatto mirabilie, che “metà della crescita della produttività degli Stati Uniti è dovuta al settore finanziario”, e che quindi l’enorme ricchezza di cui questo settore riesce ad appropriarsi è giustificata dal suo benefico effetto sulla crescita del prodotto: le rendite non si anniderebbero nei colossali compensi dei dirigenti del settore finanziario, ma tra i lavoratori che guadagnano 1000-1500 euro al mese, e che godono del “privilegio” di un posto di lavoro con qualche tutela.
Dopo tutti i loro peana al liberismo quegli economisti, dimenticando tra l’altro di aver spesso vantato gli effetti espansivi della riduzione della spesa pubblica, hanno firmato spaventati appelli perché il finora esecrato Leviatano intervenisse a levare le castagne dal fuoco, con un aumento di spesa pubblica che potrebbe essere vertiginoso: il piano britannico per i salvataggi bancari, a cui tutti sembrano ispirarsi, ha stanziato l’equivalente di 600 miliardi di euro, pari a quasi la metà del PIL italiano, o, se si vuole, pari a circa 4 volte quanto speso annualmente dall’INPS per le pensioni. Ma chi ha dimenticato che quegli stessi economisti fino a ieri additavano all’opinione pubblica come una grave minaccia un possibile aumento della spesa per pensioni di un paio di punti di PIL (la famigerata “gobba”)?
Qualcuno di essi sta oggi iniziando a rispolverare Keynes. Ma se avessero letto Keynes avrebbero forse avuto qualche remora nei loro inni al “contributo” della finanza alla crescita – che appaiono tragicomici oggi che il contribuente è chiamato a pagarne i disastri. Keynes, che era un grande economista e un grande speculatore, paragonava lo “scommettere a Wall Street” allo scommettere alle corse dei cavalli, sostenendo che entrambi servivano solo a dare l’illusione di potersi arricchire senza far nulla, ma che era preferibile andare alle corse dei cavalli, perché così almeno si prendeva un po’ d’aria.
Che la crisi abbia suscitato questo confronto è senz’altro positivo. Mai come nell’ultimo decennio infatti gli economisti liberisti avevano monopolizzato l’informazione. Usando la vecchia tecnica dei frequenti complimenti e citazioni reciproche, sono riusciti a dare l’impressione anche a lettori avveduti che un pensiero unico accomunasse tutti gli “economisti seri”. Il punto importante non è tanto quello degli errori di previsione, ma le storie che questi “economisti seri” son venuti raccontandosi e raccontando ai malcapitati lettori, nei loro editoriali e nei loro libelli. Sostenevano che la liberalizzazione finanziaria avesse fatto mirabilie, che “metà della crescita della produttività degli Stati Uniti è dovuta al settore finanziario”, e che quindi l’enorme ricchezza di cui questo settore riesce ad appropriarsi è giustificata dal suo benefico effetto sulla crescita del prodotto: le rendite non si anniderebbero nei colossali compensi dei dirigenti del settore finanziario, ma tra i lavoratori che guadagnano 1000-1500 euro al mese, e che godono del “privilegio” di un posto di lavoro con qualche tutela.
Dopo tutti i loro peana al liberismo quegli economisti, dimenticando tra l’altro di aver spesso vantato gli effetti espansivi della riduzione della spesa pubblica, hanno firmato spaventati appelli perché il finora esecrato Leviatano intervenisse a levare le castagne dal fuoco, con un aumento di spesa pubblica che potrebbe essere vertiginoso: il piano britannico per i salvataggi bancari, a cui tutti sembrano ispirarsi, ha stanziato l’equivalente di 600 miliardi di euro, pari a quasi la metà del PIL italiano, o, se si vuole, pari a circa 4 volte quanto speso annualmente dall’INPS per le pensioni. Ma chi ha dimenticato che quegli stessi economisti fino a ieri additavano all’opinione pubblica come una grave minaccia un possibile aumento della spesa per pensioni di un paio di punti di PIL (la famigerata “gobba”)?
Qualcuno di essi sta oggi iniziando a rispolverare Keynes. Ma se avessero letto Keynes avrebbero forse avuto qualche remora nei loro inni al “contributo” della finanza alla crescita – che appaiono tragicomici oggi che il contribuente è chiamato a pagarne i disastri. Keynes, che era un grande economista e un grande speculatore, paragonava lo “scommettere a Wall Street” allo scommettere alle corse dei cavalli, sostenendo che entrambi servivano solo a dare l’illusione di potersi arricchire senza far nulla, ma che era preferibile andare alle corse dei cavalli, perché così almeno si prendeva un po’ d’aria.
prof. Dario de Vivo
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