Oggi ho terminato la realizzazione di un bel modello di MG TC Midget, una famosa auto costruita dalla Casa inglese nel 1945. Il progetto è stato reperito dal sito della Canon ed è veramente ben fatto, soprattutto per quanto riguarda le istruzioni che risultano molto chiare. Il modellino è nella scala classica usata per le auto e cioè 1:24: alla fine si ottiene un oggettino lungo circa 15cm. L'unica modifica che ho apportato al disegno originale è stata la costruzione del parabrezza con dell'acetato trasparente, in luogo del pezzo in carta stampata e penso che il risultato sia veramente notevole. Riporto alla fine del post alcune foto dell'originale in modo da poter apprezzare l'aderenza del modello di carta alle forme reali.
mercoledì 29 luglio 2009
Matilde Serao - Il ventre di Napoli [1884]
"Il ventre di Napoli" discende in linea diretta dall'immersione di Hugo nel brulichio dei "Miserabili", dai labirinti indagati da Sue nei "Misteri di Parigi", dall'esasperato realismo del "Ventre di Parigi" di Zola, ma nello stesso tempo proviene dalla più bruciante delle realtà, dall'acquaforte goyesca di Napoli che nessuno prima della Serao aveva forse guardato con tanta intensità, di cui nessuno era riuscito a restituire la stracciona grandezza. Qui l'inchiesta giornalistica, effettuata all'indomani del colera del 1884, diventa un'esplorazione antropologica in "terrae incognitae" che getta sinistri fasci di luce sullo stato di miseria e di abbandono in cui ristagnano i quartieri della città destinati allo sventramento urbanistico.
Il ventre di Napoli (Il melograno)
domenica 26 luglio 2009
Bill Gates - La strada che porta a domani [1995]
Oggi è in atto la maggiore rivoluzione tecnologica nei mezzi di comunicazione dai tempi di Gutenberg: l'"autostrada informatica" consentirà potenzialmente ad ogni abitante del pianeta di trasmettere i propri messaggi - immagini, suoni, parole - e di riceverne da tutti gli altri. Potremo sbrigare affari, lavorare, studiare e divertirci senza muoverci dal luogo dove siamo: ottenere il parere dell'avvocato o del medico, il documento d'identità, informazioni su qualsiasi argomento scientifico o di attualità, vedere il nostro spettacolo preferito quando e come vorremo. Dalle pagine di questo libro Bill Gates risponde a chi teme l'isolamento che sembra minacciare l'individuo in contatto con la realtà esterna solo tramite il computer: la grande rete ci darà infinite possibilità di collegamento con le persone di ogni parte del mondo senza sostituire il rapporto personale diretto, rendendolo semmai più facile. Il segreto del suo entusiasmo e della sua visione positiva del nostro prossimo futuro risiede proprio nell'avere concepito il computer al servizio dell'uomo, unicamente per rendergli la vita più facile.
La strada che porta a domani (Ingrandimenti)
sabato 25 luglio 2009
Platone - Repubblica
Dopo aver assistito al logorarsi delle forme di governo dell’Atene degli ultimi anni, la democrazia e l’oligarchia, verso il 390, nove anni dopo la morte di Socrate, Platone pose mano alla Politeía, forse la massima opera del filosofo delle Idee. Si noti, tra l’altro, che la traduzione tradizionale del titolo non è del tutto legittima, giacché sarebbe meglio rendere il termine greco con “costituzione”, “forma di governo”. L’oggetto del dialogo, cui prendono parte Socrate, Glaucone, Polemarco, Adimanto, Cefalo e Trasimaco, è la perfetta comunità politica e sociale. L’assunto fondamentale della disamina platonica è la necessità che a governare siano i filosofi, o, che è lo stesso, che i governanti siano filosofi. Governare, precisa Platone, non è, ovviamente, facile: si tratta di comprendere il bene collettivo e tradurlo in leggi e atti politici opportuni. Inoltre, non si spiega, argomenta Platone, come scienze e discipline meno complesse, come la medicina, siano praticate da pochi, mentre la politica è così spesso affidata alla massa amorfa o a pochi incompetenti. È chiaro, dunque, che né la democrazia, né l’oligarchia (tanto meno la tirannide) possono essere riguardate come modello politico in grado di garantire la giustizia. È proprio la giustizia, opposta da Platone al diritto del più forte sostenuto dai sofisti, la condizione fondamentale della nascita e della vita dello stato. Su queste basi, Platone descrive il suo modello ideale di stato. La comunità dovrà essere divisa in tre classi: governanti (caratterizzati dalla saggezza), guerrieri (cui peculiarità è il coraggio) e cittadini-lavoratori (dotati di temperanza). Sarà unito e giusto lo stato nel quale ogni individuo attenda al cómpito che gli è deputato e abbia quel che gli spetta, in proporzione. I cómpiti in una comunità sono tanti: l’importante è che ognuno scelga il più adatto alla propria costituzione caratteriale e vi si dedichi. L’appartenenza ad una o ad un’altra classe è dettata, nello stato platonico, da fatti antropologico-psicologici, cioè dalla prevalenza nella psyché del singolo della parte razionale (governanti), concupiscibile (lavoratori) o irascibile (guerrieri), ovvero dalle qualità individuali. Ecco perché in Platone non si può parlare di caste, ma si deve parlare di classi: una certa mobilità sociale è ammessa. Nel caso che il figlio di un governante non somigli al padre, sarà retrocesso in un’altra classe. È evidente, però, come quest’evento sarà piuttosto raro. Uno degli aspetti più propri dello stato ideale delineato da Platone è l’eliminazione della proprietà privata, in seno, però, solo alla classe superiore dei governanti-filosofi. I governanti avranno in comune anche le donne, completamente eguagliate agli uomini; unioni matrimoniali saranno temporanee e i bimbi saranno tolti ai loro genitori sin dalla nascita «e così saranno di tutti anche i figli». L’essenza del “comunismo” platonico risiede in definitiva nella tesi economica dell’eliminazione della proprietà privata e nella tesi sessuale dell’eliminazione della famiglia e della parificazione uomo-donna. Tutto ciò finalizzato alla più completa dedizione al bene comune e statale. Due domande si presentano ora improrogabili: “I guardiani sono felici?” e “Chi custodirà i custodi?”. Alla prima Platone risponde che la felicità risiede nella giustizia, ovvero nell’assolvere completamente alle proprie mansioni, in vista dell’armonia complessiva dello stato. Alla seconda il filosofo risponde che, in virtù della loro formazione, i custodi saranno già in grado di custodire se stessi.
Alberto Dainese
Repubblica. Testo greco a fronte. Ediz. integrale (Grandi tascabili economici)
domenica 19 luglio 2009
Il mito di Sisifo
Gli dei avevano condannato Sisifo a far rotolare senza posa un macigno sino alla cima di una montagna, dalla quale la pietra ricadeva per azione del suo stesso peso. Essi avevano pensato, con una certa ragione, che non esiste punizione più terribile del lavoro inutile e senza speranza.
Se si crede ad Omero, Sisifo era il più saggio e il più prudente dei mortali; ma, secondo un'altra tradizione, tuttavia, egli era incline al mestiere di brigante. Io non vedo in questo una contraddizione. Sono diverse le opinioni riguardanti le cause per le quali divenne l'inutile lavoratore degli inferi. Gli vengono rimproverate anzitutto alcune leggerezze commesse con gli dei, in quanto svelò i loro segreti. Egina, figlia di Asopo, era stata rapita da Giove. Il padre si sorprese della sparizione e se ne lagnò con Sisifo, il quale, essendo a conoscenza del rapimento, offerse ad Asopo di renderlo edotto, a condizione che questi donasse acqua alla cittadella di Corinto. Ai fulmini celesti, egli preferì la benedizione dell'acqua, e ne fu punito nell'inferno. Omero ci racconta pure che Sisifo aveva incatenato la Morte. Plutone, non potendo sopportare lo spettacolo del suo impero deserto e silenzioso, mandò il dio della guerra, che liberò la Morte dalle mani del suo vincitore. Si dice ancora che Sisifo, vicino a morire, volle imprudentemente aver una prova dell'amore di sua moglie, e le ordinò di gettare il suo corpo senza sepoltura nel mezzo della piazza pubblica. Sisifo si ritrovò agli inferi, e là, irritato per un'obbedienza così contraria all'amore umano, ottenne da Plutone il permesso di ritornare sulla terra per castigare la moglie. Ma, quando ebbe visto di nuovo l'aspetto del mondo, ed ebbe gustato l'acqua e il sole, le pietre calde e il mare, non volle più ritornare nell'ombra infernale. I richiami, le collere, gli avvertimenti non valsero a nulla. Molti anni ancora egli visse davanti alla curva del golfo, di fronte al mare scintillante e ai sorrisi della terra. Fu necessaria una sentenza degli dei. Mercurio venne a ghermire l'audace per il bavero, e, togliendolo alle sue gioie, lo ricondusse con la forza agli inferi, dove il macigno era già pronto.
Si è già capito che Sisifo è l' eroe assurdo, tanto per le sue passioni che per il suo tormento. Il disprezzo per gli dei, l'odio contro la morte e la passione per la vita, gli hanno procurato l' indicibile supplizio, in cui tutto l'essere si adopra per nulla condurre a termine. È il prezzo che bisogna pagare per le passioni della terra. Nulla ci è detto su Sisifo all'inferno. I miti sono fatti perché l'immaginazione li animi. In quanto a quello di cui si tratta, vi si vede soltanto lo sforzo di un corpo teso nel sollevare l'enorme pietra, farla rotolare e aiutarla a salire una china cento volte ricominciata; si vede il volto contratto, la gota appiccicata contro la pietra, il soccorso portato da una spalla, che riceve il peso della massa coperta di creta, da un piede che la rincalza, la ripresa fatta a forza di braccia, la sicurezza tutta umana di due mani piene di terra. Al termine estremo di questo lungo sforzo, la cui misura è data dallo spazio senza ciclo e dal tempo senza profondità, la meta è raggiunta. Sisifo guarda, allora, la pietra precipitare, in alcuni istanti, in quel mondo inferiore, da cui bisognerà farla risalire verso la sommità. Egli ridiscende al piano.
È durante questo ritorno che Sisifo mi interessa. Un volto che patisce tanto vicino alla pietra, è già pietra esso stesso! Vedo quell'uomo ridiscendere con passo pesante, ma uguale, verso il tormento, del quale non conoscerà la fine. Quest'ora, che è come un respiro, e che ricorre con la stessa sicurezza della sua sciagura, quest'ora è quella della coscienza. In ciascun istante, durante il quale egli lascia la cima e si immerge a poco a poco nelle spelonche degli dei, egli è superiore al proprio destino. È più forte del suo macigno.
Se questo mito è tragico, è perché il suo eroe è cosciente. In che consisterebbe, infatti, la pena, se, ad ogni passo, fosse sostenuto dalla speranza di riuscire? L'operaio d'oggi si affatica, ogni giorno della vita, dietro lo stesso lavoro, e il suo destino non è tragico che nei rari momenti in cui egli diviene cosciente. Sisifo, proletario degli dei, impotente e ribelle, conosce tutta l'estensione della sua miserevole condizione: è a questa che pensa durante la discesa. La perspicacia, che doveva costituire il suo tormento, consuma, nello stesso istante, la sua vittoria. Non esiste destino che non possa essere superato dal disprezzo.
Se codesta discesa si fa, certi giorni, nel dolore, può farsi anche nella gioia. Questa parola non è esagerata. Immagino ancora Sisifo che ritorna verso il suo macigno e, all'inizio, il dolore è in lui. Quando le immagini della terra sono troppo attaccate al ricordo, quando il richiamo della felicità si fa troppo incalzante, capita che nasca nel cuore dell'uomo la tristezza: è la vittoria della pietra, è la pietra stessa. L'immenso cordoglio è troppo pesante da portare. Sono le nostre notti di Getsemani. Ma le verità schiaccianti soccombono per il fatto che vengono conosciute. Così Edipo obbedisce dapprima al destino, senza saperlo. Dal momento in cui lo sa, ha inizio la sua tragedia, ma, nello stesso istante, cieco e disperato, egli capisce che il solo legame che lo tiene avvinto al mondo è la fresca mano di una giovinetta. Una sentenza immane risuona allora: "Nonostante tutte le prove, la mia tarda età e la grandezza dall'anima mia mi fanno giudicare che tutto sia bene." L'Edipo di Sofocle, come Kirillov di Dostoevskij, esprime cosi la formula della vittoria assurda. La saggezza antica si ricollega all'eroismo moderno.
Non si scopre l'assurdo senza esser tentati di scrivere un manuale della felicità. "E come! Per vie cosi anguste?". Ma vi è soltanto un mondo. La felicità e l'assurdo sono figli della stessa terra e sono inseparabili. L'errore starebbe nel dire che la felicità nasce per forza dalla scoperta assurda. Può anche succedere che il sentimento dell'assurdo nasca dalla felicità. "Io reputo che tutto sia bene" dice Edipo e le sue parole sono sacre e risuonano nell'universo selvaggio e limitato dell'uomo, e insegnano che tutto non è e non è stato esaurito, scacciano da questo mondo un dio che vi era entrato con l'insoddisfazione e il gusto dei dolori inutili. Esse fanno del destino una questione di uomini, che deve essere regolata fra uomini.
Tutta la silenziosa gioia di Sisifo sta in questo. Il destino gli appartiene, il macigno è cosa sua. Parimente, l' uomo assurdo; quando contempla il suo tormento, fa tacere tutti gli idoli. Nell'universo improvvisamente restituito al silenzio, si alzano le mille lievi voci attonite della terra. Richiami incoscienti e segreti, inviti di tutti i volti sono il necessario rovescio e il prezzo della vittoria. Non v'è sole senza ombra, e bisogna conoscere la notte. Se l'uomo assurdo dice di sì, il suo sforzo non avrà più tregua. Se vi è un destino personale, non esiste un fato superiore o, almeno, ve n'è soltanto uno, che l'uomo giudica fatale e disprezzabile. Per il resto, egli sa di essere il padrone dei propri giorni. In questo sottile momento, in cui l'uomo ritorna verso la propria vita, nuovo Sisifo che torna al suo macigno, nella graduale e lenta discesa, contempla la serie di azioni senza legame, che sono divenute il suo destino, da lui stesso creato, riunito sotto lo sguardo della memoria e presto suggellato dalla morte. Cosi, persuaso dell'origine esclusivamente umana di tutto ciò che è umano, cieco che desidera vedere e che sa che la notte non ha fine, egli è sempre in cammino. Il macigno rotola ancora.
Lascio Sisifo ai piedi della montagna! Si ritrova sempre il proprio fardello. Ma Sisifo insegna la fedeltà superiore, che nega gli dei e solleva i macigni. Anch'egli giudica che tutto sia bene. Questo universo, ormai senza padrone, non gli appare sterile né futile. Ogni granello di quella pietra, ogni bagliore minerale di quella montagna, ammantata di notte, formano, da soli, un mondo. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice.
Se si crede ad Omero, Sisifo era il più saggio e il più prudente dei mortali; ma, secondo un'altra tradizione, tuttavia, egli era incline al mestiere di brigante. Io non vedo in questo una contraddizione. Sono diverse le opinioni riguardanti le cause per le quali divenne l'inutile lavoratore degli inferi. Gli vengono rimproverate anzitutto alcune leggerezze commesse con gli dei, in quanto svelò i loro segreti. Egina, figlia di Asopo, era stata rapita da Giove. Il padre si sorprese della sparizione e se ne lagnò con Sisifo, il quale, essendo a conoscenza del rapimento, offerse ad Asopo di renderlo edotto, a condizione che questi donasse acqua alla cittadella di Corinto. Ai fulmini celesti, egli preferì la benedizione dell'acqua, e ne fu punito nell'inferno. Omero ci racconta pure che Sisifo aveva incatenato la Morte. Plutone, non potendo sopportare lo spettacolo del suo impero deserto e silenzioso, mandò il dio della guerra, che liberò la Morte dalle mani del suo vincitore. Si dice ancora che Sisifo, vicino a morire, volle imprudentemente aver una prova dell'amore di sua moglie, e le ordinò di gettare il suo corpo senza sepoltura nel mezzo della piazza pubblica. Sisifo si ritrovò agli inferi, e là, irritato per un'obbedienza così contraria all'amore umano, ottenne da Plutone il permesso di ritornare sulla terra per castigare la moglie. Ma, quando ebbe visto di nuovo l'aspetto del mondo, ed ebbe gustato l'acqua e il sole, le pietre calde e il mare, non volle più ritornare nell'ombra infernale. I richiami, le collere, gli avvertimenti non valsero a nulla. Molti anni ancora egli visse davanti alla curva del golfo, di fronte al mare scintillante e ai sorrisi della terra. Fu necessaria una sentenza degli dei. Mercurio venne a ghermire l'audace per il bavero, e, togliendolo alle sue gioie, lo ricondusse con la forza agli inferi, dove il macigno era già pronto.
Si è già capito che Sisifo è l' eroe assurdo, tanto per le sue passioni che per il suo tormento. Il disprezzo per gli dei, l'odio contro la morte e la passione per la vita, gli hanno procurato l' indicibile supplizio, in cui tutto l'essere si adopra per nulla condurre a termine. È il prezzo che bisogna pagare per le passioni della terra. Nulla ci è detto su Sisifo all'inferno. I miti sono fatti perché l'immaginazione li animi. In quanto a quello di cui si tratta, vi si vede soltanto lo sforzo di un corpo teso nel sollevare l'enorme pietra, farla rotolare e aiutarla a salire una china cento volte ricominciata; si vede il volto contratto, la gota appiccicata contro la pietra, il soccorso portato da una spalla, che riceve il peso della massa coperta di creta, da un piede che la rincalza, la ripresa fatta a forza di braccia, la sicurezza tutta umana di due mani piene di terra. Al termine estremo di questo lungo sforzo, la cui misura è data dallo spazio senza ciclo e dal tempo senza profondità, la meta è raggiunta. Sisifo guarda, allora, la pietra precipitare, in alcuni istanti, in quel mondo inferiore, da cui bisognerà farla risalire verso la sommità. Egli ridiscende al piano.
È durante questo ritorno che Sisifo mi interessa. Un volto che patisce tanto vicino alla pietra, è già pietra esso stesso! Vedo quell'uomo ridiscendere con passo pesante, ma uguale, verso il tormento, del quale non conoscerà la fine. Quest'ora, che è come un respiro, e che ricorre con la stessa sicurezza della sua sciagura, quest'ora è quella della coscienza. In ciascun istante, durante il quale egli lascia la cima e si immerge a poco a poco nelle spelonche degli dei, egli è superiore al proprio destino. È più forte del suo macigno.
Se questo mito è tragico, è perché il suo eroe è cosciente. In che consisterebbe, infatti, la pena, se, ad ogni passo, fosse sostenuto dalla speranza di riuscire? L'operaio d'oggi si affatica, ogni giorno della vita, dietro lo stesso lavoro, e il suo destino non è tragico che nei rari momenti in cui egli diviene cosciente. Sisifo, proletario degli dei, impotente e ribelle, conosce tutta l'estensione della sua miserevole condizione: è a questa che pensa durante la discesa. La perspicacia, che doveva costituire il suo tormento, consuma, nello stesso istante, la sua vittoria. Non esiste destino che non possa essere superato dal disprezzo.
Se codesta discesa si fa, certi giorni, nel dolore, può farsi anche nella gioia. Questa parola non è esagerata. Immagino ancora Sisifo che ritorna verso il suo macigno e, all'inizio, il dolore è in lui. Quando le immagini della terra sono troppo attaccate al ricordo, quando il richiamo della felicità si fa troppo incalzante, capita che nasca nel cuore dell'uomo la tristezza: è la vittoria della pietra, è la pietra stessa. L'immenso cordoglio è troppo pesante da portare. Sono le nostre notti di Getsemani. Ma le verità schiaccianti soccombono per il fatto che vengono conosciute. Così Edipo obbedisce dapprima al destino, senza saperlo. Dal momento in cui lo sa, ha inizio la sua tragedia, ma, nello stesso istante, cieco e disperato, egli capisce che il solo legame che lo tiene avvinto al mondo è la fresca mano di una giovinetta. Una sentenza immane risuona allora: "Nonostante tutte le prove, la mia tarda età e la grandezza dall'anima mia mi fanno giudicare che tutto sia bene." L'Edipo di Sofocle, come Kirillov di Dostoevskij, esprime cosi la formula della vittoria assurda. La saggezza antica si ricollega all'eroismo moderno.
Non si scopre l'assurdo senza esser tentati di scrivere un manuale della felicità. "E come! Per vie cosi anguste?". Ma vi è soltanto un mondo. La felicità e l'assurdo sono figli della stessa terra e sono inseparabili. L'errore starebbe nel dire che la felicità nasce per forza dalla scoperta assurda. Può anche succedere che il sentimento dell'assurdo nasca dalla felicità. "Io reputo che tutto sia bene" dice Edipo e le sue parole sono sacre e risuonano nell'universo selvaggio e limitato dell'uomo, e insegnano che tutto non è e non è stato esaurito, scacciano da questo mondo un dio che vi era entrato con l'insoddisfazione e il gusto dei dolori inutili. Esse fanno del destino una questione di uomini, che deve essere regolata fra uomini.
Tutta la silenziosa gioia di Sisifo sta in questo. Il destino gli appartiene, il macigno è cosa sua. Parimente, l' uomo assurdo; quando contempla il suo tormento, fa tacere tutti gli idoli. Nell'universo improvvisamente restituito al silenzio, si alzano le mille lievi voci attonite della terra. Richiami incoscienti e segreti, inviti di tutti i volti sono il necessario rovescio e il prezzo della vittoria. Non v'è sole senza ombra, e bisogna conoscere la notte. Se l'uomo assurdo dice di sì, il suo sforzo non avrà più tregua. Se vi è un destino personale, non esiste un fato superiore o, almeno, ve n'è soltanto uno, che l'uomo giudica fatale e disprezzabile. Per il resto, egli sa di essere il padrone dei propri giorni. In questo sottile momento, in cui l'uomo ritorna verso la propria vita, nuovo Sisifo che torna al suo macigno, nella graduale e lenta discesa, contempla la serie di azioni senza legame, che sono divenute il suo destino, da lui stesso creato, riunito sotto lo sguardo della memoria e presto suggellato dalla morte. Cosi, persuaso dell'origine esclusivamente umana di tutto ciò che è umano, cieco che desidera vedere e che sa che la notte non ha fine, egli è sempre in cammino. Il macigno rotola ancora.
Lascio Sisifo ai piedi della montagna! Si ritrova sempre il proprio fardello. Ma Sisifo insegna la fedeltà superiore, che nega gli dei e solleva i macigni. Anch'egli giudica che tutto sia bene. Questo universo, ormai senza padrone, non gli appare sterile né futile. Ogni granello di quella pietra, ogni bagliore minerale di quella montagna, ammantata di notte, formano, da soli, un mondo. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice.
Albert Camus - 1942
mercoledì 15 luglio 2009
Alberto Viani
La parabola artistica di Alberto Viani è certamente una delle più interessanti del secolo scorso, anche a livello internazionale. Sono celebri le sue “Bagnanti”, le sue “Chimere”, i suoi torsi levigati, stilizzati, eterei. Dietro tali creazioni, dalle linee così pure ed essenziali, si nasconde un intenso percorso di ricerca, raro di questi tempi, fatto di idee, schizzi, ripensamenti, correzioni e passi in avanti. Lo scopo di questa mostra è quello di mostrare al pubblico tale percorso, evidenziandone alcuni tratti salienti. Essa assume un impianto didattico: si vuole porre l’attenzione non tanto sulla pur indiscussa valenza della sua scultura ma quanto sul percorso creativo necessario alla sua realizzazione. Infatti oltre a presentare le sue opere grafiche, si cerca di far emergere la personalità di Alberto Viani, uomo schivo, meditativo e concreto, interessato più all’approfondimento filosofico dei significati delle sue opere che alla loro sterile ed altezzosa esibizione. Vengono proposti i suoi carteggi, quasi come fossero delle opere essi stessi: sono pagine di quaderno riempite da considerazioni sul suo essere scultore, sul suo ruolo d’insegnante all’Accademia di Belle Arti, nonché da schematizzazioni delle teorie espresse da grandi uomini della critica d’arte e della cultura nazionale ed internazionale. Tra i vari nomi compaiono Argan, Bettini, Valery, Brandi, Eco, Barilli. L’esposizione ha una struttura concepita su tre sezioni: la prima, intitolata “Allo specchio – Viani presenta Viani” è dedicata alle considerazioni che egli fa sulla sua arte; nella seconda, dal titolo “Dialoghi”, lo scultore si confronta con le idee di altri grandi pensatori; nella terza, dal titolo “Dalla linea al volume”, si dipana la costruzione di un’opera d’arte dal punto di vista sia teorico che pratico. Dato il valore e la qualità di un autore come Alberto Viani, è sufficiente far rilevare come la ricercatezza, l’eleganza e la raffinatezza delle sue forme siano il risultato di un intenso ed approfondito lavoro, la cui importanza è stata fatta rilevare dai più grandi critici contemporanei. Senza dubbio ci troviamo di fronte ad uno dei massimi artisti del ‘900, entrato di diritto nella storia dell’arte mondiale.
Siro Perin
martedì 14 luglio 2009
Orologio digitale a componenti discreti
Riporto alcune info su di un progetto veramente curioso: un orologio digitale realizzato esclusivamente con componenti discreti: transistor, diodi, resistenze, ecc. Più precisamente: per rendere funzionante questo circuito sono necessari 149 transistor, 566 diodi, 400 resistenze, 87 condensatori, un PCB di 28x25 cm, 8 display a 7 segmenti, 1 trasformatore. Non è stato utilizzato alcun circuito integrato o ibrido. Questo progetto mi ha colpito molto perché quando ero all' Istituto Tecnico, uno dei progetti di fine anno che ho realizzato è stato proprio un orologio digitale utilizzando tutti i componenti integrati necessari: contatori, decoder, porte logiche, ecc. Benché avessi utilizzato componentistica complessa, mi ero comunque stupito dell' elevato numero di dispositivi coinvolti, e il vedere come si presenta ora la versione con soli componenti discreti mi ha davvero impressionato. Ne sito si trova tutta la storia di questo bel progetto e perfino il manuale di assemblaggio con gli schemi elettrici di tutte le sezioni che reputo decisamente istruttivo!
lunedì 13 luglio 2009
domenica 12 luglio 2009
Controller IR - Relays
Oggi ho terminato la programmazione ed il collaudo di un controller per relè comandato da un telecomando Infra Red di un vecchio impianto stereo. In realtà il progetto è stato realizzato diversi anni fa e originariamente doveva essere un controller per l'azionamento di motori asincroni trifase comandato via bus, ma la cosa non ha avuto molto seguito ed è rimasto per parecchio tempo inutilizzato in un cassetto dei miei labs. Ultimamente mi si è presentata la necessità di comandare dei carichi domestici in modo semplice e coreografico attraverso l'uso di un semplice telecomando ad infrarossi: è stato sufficiente recuperare i vecchi schemi, riscrivere in pochi minuti un programmino ad hoc ed ecco pronto il device che fa al caso mio. Il progetto è sviluppato su due schede sovrapponibili: una contenente il microcontrollore (un vetusto Atmel AVR 8515) e un'altra con gli 8 relè per attivare i vari carichi. Avendo inoltre a disposizione tutti i pulsanti delle varie funzioni previste dal telecomando ho potuto sbizzarrirmi a implementare i giochetti più divertenti, come le sequenze di luci e i simulatori di presenza. Per quanto riguarda il software, le cose sono state molto semplificate dal fatto che avevo già da tempo scritto una libreria per la decodifica dei codici IR emessi dai chip NEC ed è stato quindi sufficiente interfacciare il ricevitore IR (un TSOP1838) al uC e integrare la routine con il resto delle funzioni previste dal programma. Un giorno forse realizzerò un progettino completo da pubblicare nel sito.
sabato 11 luglio 2009
Capaso Logo
Gironzolando per internet ho per caso scovato una azienda tedesca produttrice di magliette e loghi di vario genere, che nel suo catalogo prevede anche una linea dedicata al Capaso. Ovviamente non ha nulla a che fare con questo blog, ma mi ha comunque incuriosito parecchio, anche perché si intona molto con i contenuti che popolano questo spazio. Hanno realizzato addirittura le magliette. Che figo!
sabato 4 luglio 2009
Paper Model - Jeep
Riporto alcune foto di un modello di carta che ho realizzato di recente con il pregio di essere estremamente semplice ma di bell'effetto: una Jeep lunga circa 15 cm. I disegni e le istruzioni (in giapponese) sono scaricabili qui.
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