Una priapata storica è, questo romanzo di Camilleri. Dal «furore» alla «cenere». A Vigàta. Nell'anno di grazia 1935 della guerra di Abissinia, che la letteratura conosce come «baggiana criminalità»; e i calendarietti profumati dei barbieri fecero sognare come scorciatoia per il possesso, a pugno stretto, del profondo nero di Tettonia o Culonia bella. La voce del Duce vi occupa lo spazio pornografico che intercorre tra una porta che si chiude e una mutanda che si abbassa; tra una bottoniera che salta e una elargizione genitale. Mentre si consuma lo scandalo delle «cose vastase», che corrompono l'innocenza di un bambino prodigiosamente pubere. Michilino è figlio del camerata Giugiù. È un «picciliddro». Indossa la divisa di Figlio della Lupa. Libro e moschetto lo fanno fascista perfetto. Prima comunione e cresima lo arruolano nella milizia di Cristo. Il bambino si cerca a tentoni, tra un padre che si ringalluzza con la creata di casa e una madre che si dà alla «penetrante conversazione» con un prete. Il sofistico professore Gorgerino, pedofilo e capo dell'opera nazionale balilla, lo introduce alla ginnastica degli spartani («i fascisti ai tempi dei Greci»): lo denuda e brutalizza il suo «loco spartano» per festeggiare di volta in volta la presa di Macallè, di Tacazzè, Adigrat, Amba Alagi, Amba Aradam, Axum. La vedova Sucato lo turba con le sue corporali astuzie. E la solidarietà sordida della cugina Marietta, una fidanzata di guerra, lo porta al delirio ferino dei sensi e alla consumazione del gaudio misterioso del sesso. Vari teatri in un sol teatro spiega la mascherata pubblica organizzata con i balilla e le piccole italiane, per festeggiare la presa di Macallè; e onorare i caduti in guerra. Una rumorata eroica. Ovvero «una minchiata solenne», nelle parole di Cucurullo che nella battaglia aveva perso il figlio Balduzzo. (segretamente fidanzatosi con Marietta). Una monumentale cialtroneria, «una vigliaccata», nel commento del sarto comunista Maraventano subito arrestato. Fu quella stessa sera della rappresentazione che Michilino, risentitosi, maturò l'idea di vendicare la sua fede in Cristo e in Mussolini, e di giustiziare il coetaneo figlio del sarto: «Un comunista non è un omo, ma un armàlo e perciò se s'ammazza non si fa piccato». Quella di Michilino è un'infanzia sabotata. La sua innocenza è stata adescata, profanata, manomessa e seviziata. Corrotta e depravata. Fino al fanatismo, che confonde cielo e terra, fede politica e fede religiosa, e arma la mano. Michilino è arrivato al punto di non ritorno di un terrorista. Soldato irregolare di una fantomatica milizia, del Duce e di Cristo, si trasforma in pluriomicida. In castigatore, e vendicatore-suicida. La presa di Macallè è un romanzo paradossale che intenzionalmente trasmoda nel troppo, ed eccede ogni misura, a partire dalla promozione a protagonista di un «angilu minchiutu» di sei anni. Una parabola grottesca, che va fabulando la tragicità e la normalità abnorme della violenza. Una «istoria» infine, di dolente tenerezza per una infanzia tradita.
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